mercoledì 26 novembre 2008

GUYANA FRANCESE 1984

AVVENTURA NELLA GUYANA FRANCESE .

Una delle pecche che alcuni dei miei lettori ed estimatori del mio primo saggio “ L’Impero Amazzonico” ( 1 ) mi hanno sempre rinfacciato è di non avere mai scritto nei dettagli quella che è stata la mia prima avventura amazzonica in Sud America, compiuta nell’ormai lontano 1984, a 21 anni di età.

Gli ultimi frequenti contatti con l’amico di sempre Adriano Forgione, l’improvviso ( ed era ora ! ) rinnovato interesse per i misteri archeologici del Sud America anche da parte della scienza ufficiale, anche se a volte critica con sé stessa ( vedi il caso di Robert Schock e Marcahuasi , finalmente si è deciso anche lui, il mio primo viaggio e relazione su Marcahuasi lo avevo già fatto nel 1998), un’ archeologia mai come ora chiamata a rendere conto dei suoi silenzi e delle continue reticenze mantenute per troppi anni, mi hanno deciso di raccontare in modo sufficientemente dettagliata questa mia prima avventura nel grande inferno verde amazzonico, nel vero senso della parola.

Gli spunti e gli argomenti sono moltissimi, insieme ad un misterioso avvenimento avvenuto durante la spedizione,segreto che mi sono tenuto dentro per vent’anni e che questa volta, per la prima volta, verrà rivelato.

Proprio mentre sono impegnato in questi tempi a recuperare con buon successo tempo ,energie e preparazione fisica per organizzare un’altra missione in America latina, dopo 2 libri scritti, altri in preparazione, fa piacere fermarsi un attimo e ricordare le mie prime esperienze di avventura durante i mitici anni ’80.

Devo tutto al mio “ istruttore “, l’esploratore e mio cugino Mario Ghiringhelli, scomparso tragicamente, dopo una vita di avventure in giro per il mondo, in Indonesia nel 1993.

Fu una grossa perdita ma, grazie a Dio, aveva già fatto in tempo a consegnarmi metaforicamente gran parte del suo insostituibile bagaglio pratico e soprattutto spirituale su come affrontare situazioni nella foresta che una persona normale non potrebbe nemmeno solo immaginarsi – e non sto esagerando, come leggerete- .

Alla fine di luglio 1984 eravamo partiti, un gruppo di 4 avventurosi, il capo ( Mario Ghiringhelli ), il braccio destro e fotografo esperto( Lionello Semprini ) e i due- allora- giovani di studio “ , io ( 21 anni ) e il “ bancario “ Pierluigi Martini ( 24 anni ), detto “ il gemello “ .

La missione doveva essere una esperienza fisico – psicologica preparatoria ( dopo mesi di allenamenti forsennati e dispendiosissimi dal punto di vista dello stress fisico , ma servirono eccome) in vista di una successiva spedizione da effettuarsi nel Perù Amazzonico – poi parzialmente effettuata nel 1998 e soprattutto nel 2000, ma con Mario ormai deceduto da tempo ed effettuata con l’archeologo di esplorazione statunitense Gregory Deyermenjan ed il caro amico , ora insegnante universitario di diritto internazionale Alessandro Fodella , sulle tracce dell’Impero amazzonico perduto del Paititi e di misteriose, ancora controverse, Piramidi ( 2 ) di tipo egizio.

Dobbiamo dirlo subito, in vent’anni la Guyana Francese non è cambiata molto, lo ho saputo da varie fonti e dai frequenti passaggi di documentari sulle televisioni francesi.

Pur essendo dal punto di vista giuridico parte integrante del territorio francese d’oltremare ed ex colonia penale fino al 1946 –la moneta di scambio là oggi è l’Euro – la Guyana si trova dall’altra parte dell’Oceano Atlantico – è sede di una base spaziale molto famosa a Kourou presidiata dagli amici della Legione Straniera e fa parte geologicamente della zolla del continente sudamericano che comprende il Venezuela e tutto il Brasile del Nord Est .

Risulta essere tutta foresta pluviale geologicamente ancora primaria e plurimillenaria dal punto di vista epocale preistorico, una vera miniera per gli scienziati botanici ma anche per i cercatori d’oro francesi ed indigeni, molti di cui di frodo ( c’è sempre una tenace lotta da parte della Gendarmeria per fermare questo fenomeno ).

Comunque è un posto dove non si deve scherzare, né con la natura né con la gente che vive là, soprattutto alla Cayenna, la capitale della Guyana Francese : può essere semplicemente un vero inferno trovarsi là se si prende la giungla sottogamba o se si passa semplicemente la sera nei quartieri della Cayenna meno indicati per i bianchi.

Ricordo l’arrivo con un jet Air France all’aereoporto internazionale ( allora la pista era tutta in terra battuta- e ci atterravano anche i Concorde ! ) della Cayenna , con una umidità vicina al 100% e 35 gradi al pomeriggio sera.

Quell’aeroporto era stato costruito dagli Alleati nel 1943 durante la seconda guerra mondiale come base di bombardieri a lungo raggio, quando gli Americani erano stati allertati dai servizi segreti inglesi e terrorizzati dalle informazioni relative al fatto che la Germania nazista era sul punto di rendere esecutivo un progetto da tempo tenuto in “stand by per invadere ed attaccare il Brasile, dopo che lo stesso Brasile aveva, di malavoglia e costretto dagli USA , dichiarato guerra alla Germania nel 1942 ( 3 ).

Ma andiamo avanti: come si presentava la Cayenna ? A domanda, risposta.

Trentacinquemila abitanti, una cittadina quindi, pioggia di un’ora o due tutti i santi giorni, ed eravamo nella loro stagione secca , 4 gradi sud dell’equatore.

Il sole sorge praticamente alle 6 esatte e tramonta alle 18.00 , tutto l’anno. Coste impraticabili ,senza spiaggia o arenili, dove la foresta diventa direttamente mare. Di fronte Le Isole della Salute, le Isole del Diavolo e Royale, il terribile bagno penale di Papillon e del Colonnello Dreyfus.

Tutti pensavamo: inizio poco promettente, ci sarà da faticare parecchio.

Dopo qualche giorno di ambientamento, grazie alle conoscenze nell’esercito francese e nella Legione da parte di Mario ( con i legionari di stanza ad Aubagne presso Marsiglia, in Francia allora compivamo allenamenti e gare di marcia insieme, per puro spirito sportivo ) riuscimmo ad avere un appuntamento con l’allora colonnello Jin della Gendarmeria dell’Area della Cayenna , incontro in cui lui allora fu molto gentile , risoluto e franco ed in pratica, dopo averci ascoltato ci disse : “ Caro Mario, dagli amici dell’esercito ho sentito parlare molto bene di lei anche come preparatore atletico di sopravvivenza, ed i suoi compagni, lo vedo, sono in gamba. Interessante il suo racconto dell’archeologia amazzonica , delle sue esperienze e dei suoi progetti futuri in Perù ma anche qui purtroppo siamo in una brutta situazione, ci sono state delle alluvioni proprio di recente nelle zone dove voi volete tracciare una “premiere” ( per premiere si intende un percorso nella foresta amazzonica totalmente nuovo, un vero e proprio percorso di allenamento di parecchi giornate di marcia, nda ).

Alcuni nostri uomini sono rimasti isolati per giorni e siamo dovuti andare a cercarli con gli elicotteri, con parecchio tempo perso e rischi altissimi. Meno male che è finito tutto OK. Il punto è questo : se vi perdete nel mezzo del percorso, dopo aver fatto 50 o 80 chilometri sul tragitto premiere da Saul a Maripasoula ( sul fiume Maroni, vedi cartina , luogo da cui avremmo poi fatto 300-400 km in canoa sulle rapide prima di arrivare a San Laurent du Maroni ) , chi vi viene a cercare ? Come facciamo a trovarvi ? E se viene un altro alluvione? La stagione non è questa, però può capitare ancora…Vale la pena rischiare la vita per un allenamento , seppure di tre settimane, e per una giusta causa?”. Questo praticamente ci disse il colonnello Jin in Gendarmeria alla Cayenna.

Certo noi tutti, concordammo insieme, non eravamo andati là per prendere farfalle , però con il colonnello si stabilì una serie di percorsi di allenamento tutto intorno a Saul – più umani – testuali parole, dove, se succedeva qualcosa, c’era almeno una possibilità di trovarci con l’elicottero ( allora i GPS non c’erano , anche se le mappe militari francesi scala 1/50.000 della Cayenna non erano niente male ).

Dopo aver speso qualche altro giorno per recuperare tutto l’equipaggiamento e i viveri , un traballante aereo dell’Air Guyane ci portava dalla Cayenna alla nostra prima meta, Saul appunto, in piena foresta tropicale .

Come ho già detto la foresta tropicale in tutta quella fascia che parte dal Venezuela fino alle tre Guyane ed al Brasile è di tipo primario, cioè è rimasta tale e quale, sostanzialmente , come era milioni di anni fa : l’albero principale, oltre ad un grande numero di felci giganti è la sequoia tropicale, un tipo di albero enorme che facilmente supera i sessanta- settanta metri di altezza ( è pauroso ) ed ha una incredibile particolarità e cioè cresce continuamente per secoli e muore quando cade, quando cioè – in proporzione – le deboli radici non lo reggono più.

Quando si pernotta in quel tipo di foresta , generalmente si dorme con le amache, così come facemmo noi per tre settimane ininterrotte, ma bisogna stare attenti a piantare il campo dove ci sono sequoie “ giovani “, infatti di notte si sente cadere immancabilmente qualche vecchia sequoia, con un rumore tremendo che si espande per chilometri, e non sia mai dover averci messo il campo sotto. A buon intendere…

Tutta la zona tropicale della Guyana francese è completamente coperta da questa fascia di foresta irregolare per quanto riguarda la conformazione del terreno : si continua a marciare su è giù per queste piccole colline alte poche centinaia di metri, dove ogni tanto si apre uno spettacolo alla vista prodigioso, di natura sovrana, che solo l’averla vista direttamente può far realmente capire il vero significato del termine .

Per esigenze di spazio non potrò certo raccontare interamente il gran numero di episodi incredibili, sia divertenti che pericolosissimi insieme che ci sono capitati in questo viaggio di “ prova “ fisica e psicologica ma mi limiterò a raccontare alcuni episodi avvenuti in una marcia di 5 giorni , tra andata e ritorno, nelle zone più intricate ben fuori Saul.

L’esperienza, altrettanto fantastica, della pericolosa discesa delle rapide sul fiume Maroni verso Saint Laurent magari potrò raccontarla un’altra volta.

Volevamo raggiungere la cima del monte Kalbao ( in realtà una grossa collina che arriva a circa 800 metri sul livello del mare ), il più alto della Guyana Francese, in direzione Sud rispetto al nostro punto di partenza.

La nostra guida George , un “Tarzan” francese biondo e simpatico di 35 anni ( purtroppo è morto nel 1995, in seguito ad una malattia presa nella foresta ), era stato là diversi anni prima però, al ritorno, aveva perso un suo caro amico, strappato e gettato in acqua da un enorme serpente anaconda sbucato improvvisamente dal fiume e piombato sulla loro canoa – il suo amico non era mai stato più trovato - e pertanto ci aveva avvertito che non sarebbe stata certo una passeggiata.

Da quello che avevamo già assaggiato, lì non si “passeggiava” mai da nessuna parte facilmente: da tutte le parti liane enormi grosse come le gambe di un uomo scendevano da sequoie giganti che si susseguivano continuamente.

Ogni sera alle 4 si interrompeva la marcia con il machete e si preparava il campo: tutto doveva essere pronto per le 18.00 e si mangiava molto frugalmente e alle 18.30- 19.00 tutti a dormire, con turni di guardia per tenere controllato il fuoco che doveva sempre essere acceso per tenere lontani gli animali .

Giaguari e scimmie continuavano tutta la notte a fare il loro coro spacca-timpani intorno al campo. Non c’era certo da stare allegri , ma ci eravamo cacciati noi in questa storia ed il lamentarsi era proibito per legge, nel nostro gruppo.

I primi due giorni di marcia verso il monte Kalbao erano andati abbastanza bene, certo, come sempre, non si riusciva a percorrere più di sette-otto chilometri al giorno ( circa 8 ore di marcia ) per via della difficoltà di attraversare la jungla, ma le cose andavano benone,eravamo nella media di percorrenza.

E stavamo bene, sia fisicamente che come morale ( certo ognuno di noi aveva già perso 5- 6 chili di peso in due settimane , ma era una cosa normale là per tutti ).

La terza notte si volle andare fare un caccia notturna, perché in effetti il cibo scarseggiava un poco. Qualcuno però doveva rimanere al campo e siccome io non avevo nessuna voglia di passare altre due ore in una pozza d’acqua aspettando all’abbeverata chissà quale preda con decine di occhietti lucenti di serpenti acquatici intorno illuminati dalle torce, una cosa normale in quelle zone, secondo la guida, decisi di rimanere io al campo, mentre gli atri scendevano giù per la collina per centinaia di metri verso i ruscelli d’acqua. I campi bisogna sempre farli lontani dalle pozze d’acqua di abbeverata degli animali, è la prassi.

Ero così completamente solo: decisi subito, per tenermi impegnato, di ravvivare il fuoco con un po’ di liane robuste tagliate e poi mi misi dentro la mia amaca, coperta da un telo e dalle zanzariere, in riposo ed in attesa, abbastanza tranquillo e con un cigarillo speciale brasiliano acceso. Io non ho mai fumato ma allora quei benedetti sigari ci servivano a tener lontani gli insetti e le zanzare, e alla sera, dopo cena, non erano niente male.

Erano le 10 circa e il sigaro bruciava velocemente…!

All’improvviso mi sveglio di colpo: era mezzanotte circa .

Caspita, mi dissi , mi ero addormentato di botto, bella guardia che ho fatto , complimenti Marco, dicevo a me stesso.

Degli amici neanche l’ombra , anche se in effetti poco dopo sentii sparare il fucile da caccia di Gorge, ma abbastanza lontano. Avevo ravvivato il fuoco da 5 minuti e mi ero coricato di nuovo nell’amaca di fianco al mio fido coltello da sub, quando all’improvviso sentìì come uno strano urlo prolungato lontano, come un potente brontolio , però squillante e forte insieme, ed uno strano calpestare di piante ed erba, lento ma potente deciso, sul terreno.

Ma è molto lontano, sentivo io, e in direzione Ovest, diceva la bussola: almeno 3-4 chilometri. Che strana cosa pensavo, sarà un temporale o il vento, o una sequoia che cade …proprio mentre passava qualche minuto e stavo per riaddormentarmi sentìì questo grido lunghissimo, un po’ più vicino e potente , anche se ancora abbastanza fioco però in più, il calpestare lento e regolare su terreno era chiaro, lontano ma potente da trasmettersi nel terreno. Un animale! E grosso!

Subito la mia mente fu attraversata da questo pensiero. Un tapiro,no, non può essere nemmeno un elefante,qui non ci sono più da migliaia di anni. E neanche un orso, è impossibile…

Maledizione, pensai allora, un gruppo di facoceri in arrivo, sono pericolosi, fanno una specie di percorso nella jungla in famiglie di 8 dieci per volta, e se sei sulla loro strada prima ti calpestano attaccandoti e poi ti chiedono chi sei. E non ho neanche un fucile . Ma non ero convinto neanche di questa mia intuizione…

I compagni non arrivavano ed era quasi l’una di notte: non me la sentivo certo di utilizzare il fischietto da segnalazione per chiamarli nè di spegnere il fuoco che, probabilmente, si vedeva da parecchio lontano e serviva proprio da riferimento verso quella “ cosa “ che si stava dirigendo giusto da questa parte.

Fu all’improvviso, fortissimo e vicino, quello che sentii ormai chiaramente come un “ ruggito sibilante “ ( me lo ricorderò per sempre e non saprei come descriverlo meglio ) come di un animale veramente grosso che si avvicinava e schiantava le liane.

Non c’era dubbio ormai, ed ero molto spaventato anche se controllavo la situazione, i nervi tesissimi: fischiai fortissimo per richiamare l’attenzione dei compagni, fischiai più volte.

Passò qualche secondo circa , forse dieci, al massimo e sentii uno sparo .

Erano Mario e gli altri che mi davano ad intendere : tranquillo , stiamo tornando.

Passarono poi una ventina di minuti veramente tremendi per me e di grande tensione: un paio di volte sentìì ancora quell’urlo tremendo che però, grazie al cielo fu quella la svolta della vicenda, si stava certamente allontanando nella foresta da dove era venuto.

Giunti i miei compagni di avventura, saliti su per la collina, raccontai tutto a Mario e a George per filo e per segno . Mario, come sempre, era molto scettico sull’accaduto ma comprendeva che qualcosa era veramente successo. Loro non si erano accorti di nulla, si erano allontanati per circa un chilometro e, francamente, erano stati attenti a non incontrare qualche piccolo caimano nell’acqua. Non avevano preso nulla. Avevano sparato solo un colpo su quello che pareva un maiale selvatico. Ma niente di niente.

George divenne invece molto serio e disse : “ Nella foresta amazzonica succedono molte cose strane, strani suoni e strane situazioni. La mente gioca anche molti brutti scherzi però, in questo caso e in questa zona, posso dire che altre persone hanno riferito di misteriosi voci e rumori potenti proprio in direzione del Brasile o del Venezuela, dove dici tu. Comunque non poteva essere un grosso felino, perché il giaguaro non lo senti mai, e quando lo vedi improvvisamente piombare su di te sei già morto. Quindi francamente che cos’era, se c’era, non lo so. E’ meglio dormirci sopra, è tardi”.

L’episodio non si verificò più e fummo molto presi nei giorni successivi per raggiungere la cima del Kalbao e tornare indietro a Saul con non poche difficoltà, perdendo pure la strada un paio di volte. Ma degli indigeni indiani Aloike ci aiutarono, con dei passaggi in canoa.

Ricordo dei passaggi clamorosi sui torrenti sfruttando delle enormi sequoie cadute di traverso e sfruttate da noi come ponti. Fantastico! Un vero Mondo Perduto.

Certe esperienze non si dimenticano, nella vita di un uomo, e questa della Guyana senz’altro fu una delle più impressionanti e formative per lo spirito di una persona come chi scrive, allora molto giovane. Ma anche questa esperienza passò , come diverse altre avventure negli anni successivi, ed il tempo contribuisce ora ad alimentare la voglia di conoscenza verso altre imprese, verso quel mondo meraviglioso ed avvincente che è il Sud America , i suoi misteri archeologici e l’Amazzonia.

Fu molti anni dopo che lessi diversi resoconti di avventurieri che erano stati in quelle zone, dal Venezuela al Nord Brasile, dove accennavano alla possibilità che esistessero ancora da quelle parti dei grossi animali antidiluviani, non solo grossi rettili preistorici o dinosauri ma anche dei mammiferi enormi ritenuti scomparsi, come il Megaterio- una specie enorme bradipo terrestre sudamericano grosso come un elefante, erbivoro ed estintosi 10.000 anni fa-( 4 ) .

A dire la verità, per come la penso io, se di un animale si trattava, e su questo personalmente ne sono sicuro perché sentii chiaramente lo schianto della vegetazione per l’aprirsi di un varco nella giungla utile al passaggio, quella specie di ruggito che sentii non aveva nulla di mammifero, e poteva quindi essere il richiamo di un grosso rettile. Un dinosauro, forse.

Ma, anche dopo tanto tempo, una cosa la posso dire con certezza : sarà perché era notte fonda o perché troppo stanchi o per altri motivi, a nessuno di noi venne allora la voglia di andare a cercarlo!

Note

1) Marco Zagni, L’Impero Amazzonico, MIR, Firenze, 2002.

2) Le “ Piramidi di Pantiacolla “ , vedi “ L’Impero Amazzonico “, op. cit., pag.47 e seg.

3) Questo ed altri argomenti sono stati trattati nel mio secondo saggio :” Archeologi di Himmler “, Ritter, Milano, 2004.

4) Ricordo le raffigurazioni di animali estinti esistenti in località archeologiche sud americane molto famose come per esempio a Tiahuanaco.

sabato 15 novembre 2008

Vichinghi in America

I VICHINGHI IN GROENLANDIA E NORDAMERICA

La storia che stiamo per raccontare, come si sa, non ha mai avuto vita facile nel nostro Paese dato che, campanilisti come siamo e come è naturale, dalle nostre parti si è fatto sempre e letteralmente di tutto per farci dimenticare che invece sono circa quarant’anni che la faccenda in questione è stata dimostrata nel modo più completo.

Chi scrive ha già da tempo compiuto due lunghi viaggi in Canada e può confermare senza ombra di dubbio che tali avvenimenti sono da decenni materia di insegnamento nelle scuole elementari di quell’immensa nazione .

In effetti è proprio così : è dai primi anni sessanta che l’archeologo norvegese Helge Ingstad ( con 5 spedizioni archeologiche, fino al 1965 ) riuscì efficacemente a dimostrare che resti di insediamenti vichinghi datati intorno all’anno mille esistevano realmente lungo la costa nordamericana e in Canada.

E pertanto quasi 500 anni prima di Cristoforo Colombo, degli Europei avevano raggiunto l’America.

Di fatto però risultò anche che gli esploratori nordici, da un certo punto di vista, non si erano nemmeno accorti della grande scoperta che avevano fatto.

Come in tante altre occasioni nella storia avventurosa dell’esplorazione , tutto era avvenuto praticamente per caso.

I Vichinghi ( Jomsvikings – pirati vichinghi ) erano un fiero popolo medievale di predoni del Nord Europa, capaci di costruire battelli straordinari con i quali compivano le loro scorrerie per mare e fiumi.

Erano anche dotati di armi eccellenti per l’epoca e partendo dalla loro mitica capitale, Jomsborg, ricolma di ori e preziosi depredati, e il cui porto era capace di contenere fino a 300 navi per la guerra di corsa, sciamavano per ogni dove : a Occidente verso l’Inghilterra e l’Islanda, a Sud fino al Mediterraneo ed in Sicilia , a Ovest risalendo addirittura il corso del fiume Volga.

Man mano che si susseguivano queste incursioni, le loro imprese, comunque sanguinarie e portatrici di lutti in ogni dove, diventavano sempre più leggendarie, tant’è vero che furono trascritte in runico come Saghe e le più importanti sono la Saga di Erik il Rosso ( Eiriks Saga ) e la Saga della Groenlandia ( Groenlendinga Saga ).

Esse in sostanza descrivono la scoperta dell’America, il primo contatto con i nativi americani originari , abitanti di quella che fu poi chiamata dai Vichinghi “ Vinland “ ( la “ Terra del Vino di bacca “, o meglio , la “ Terra Fertile “, che forse è la traduzione più esatta ) e in definitiva la dimostrazione che , a differenza di Colombo, tale “ scoperta” era avvenuta per metodici “salti” geografici e nell’arco di un centinaio di anni.

Tutto avvenne per balzi successivi : il punto di partenza per raggiungere l’America fu ovviamente la Norvegia ed in seguito attraverso le Isole Farøer, l’Islanda già colonizzata e la Groenlandia.

Quello che generalmente spingeva i Norvegesi verso la navigazione in Occidente, a colonizzare le isole atlantiche minori e poi l’Islanda e la Groenlandia fino ad arrivare al tentativo di insediarsi in America del Nord, era stato il costante bisogno di terra , pascoli e nuovi spazi di pesca.

Il primo vichingo a scorgere la Groenlandia, per esempio, fu probabilmente un uomo di nome Gunnbjörn , la cui nave il maltempo aveva trascinato fuori rotta dall’Islanda, verso Occidente, intorno al 960 d.C.

Ma senz’altro il primo ad insediarsi in Groenlandia fu il capo vichingo e predone Erik il Rosso.

Erik ( o meglio Eirik ) era nativo dello Jaeder , che si trova nella Norvegia Sud-Occidentale.

Il nostro uomo non era certo un santo anzi, semmai l’esatto opposto . Nel 982 d.C., dopo che questo predone con i suoi degni compari si era lasciato andare ad un’ennesima serie di saccheggi ed omicidi , i suoi stessi concittadini lo misero al bando per tre anni, col divieto di rimanere in Norvegia ed in Islanda.

Il Rosso aveva dimostrato di essere un sanguinario, ma non era affatto uno stupido ed in più era un marinaio navigatore di razza come ce ne sono pochi, e con un manipolo di fedeli al seguito , conoscendo quello che era successo precedentemente al suo conterraneo Gunnbjörn almeno vent’anni prima, riuscì a raggiungere per primo la Groenlandia ( la Terra Verde ) , un posto glaciale e non molto ospitale e che quindi non era verde per niente , se non per il fatto che , avvistata durante il periodo estivo, lasciava intravvedere erbe , muschi e licheni, sotto la neve.

L’esploratore non perse tempo e con i suoi uomini , trovato un fiordo favorevole per installare una prima base e alcune piccole fattorie ( zona di Tunugdliarfik ), cominciò a rifornirsi di legname e alimentari con la caccia , la pesca ed il commercio con gli Eschimesi , i veri nativi del luogo da tempo immemorabile.

In questo vero e proprio luogo di frontiera, ai confini del mondo , la vita dei primi colonizzatori era durissima , molto più vicina alle prime gesta norvegesi dei Vichinghi e Normanni di due secoli prima, con i Drakkar sempre in mare a pescare , ed in terra gli uomini intenti a costruire abitazioni di legno.

In confronto , la vita bucolica e agricola dei Vichinghi islandesi sembrava un paradiso.

Ma Erik il Rosso ce la fece e, scaduto il periodo dell’esilio forzato triennale, tornò in Islanda a raccontare quello che aveva fatto.

Proprio in quegli anni l’Islanda aveva subito una grave carestia agricola ed Erik non fece pertanto molti sforzi per convincere molte persone, ricchi e poveri , agricoltori e pescatori , cacciatori e sfaccendati a veleggiare con lui per colonizzare definitivamente la Groenlandia , convivendo con gli Eschimesi.

Si armò una flotta di trentacinque navi, con 2000 persone e centinaia di capi di bestiame, e si salpò dall’Islanda.

In mare ci fu purtroppo una tempesta e solo una quindicina di Drakkar riuscirono a raggiungere la Groenlandia .

Ma avventure e disgrazie del genere allora erano praticamente nella norma ed Erik con la sua gente riuscì a costituire in Groenlandia, nel giro di poco tempo, il primo efficace luogo di insediamento stabile, ricordato ancora oggi dagli esperti con il nome di Insediamento Orientale ( l’attuale Julianehab ) a Eiriksfjord .

Qui Erik crebbe i suoi tre figli, il maggiore Leif Eriksson e gli altri due figli Thornvald e Thornstein.

Ma è Leif il personaggio che ci interessa di più perché, secondo le saghe, fu proprio lui il primo a scoprire l’America.

Non appena Leif aveva dimostrato di cavarsela da solo ( e cioè guidare un’imbarcazione in mare aperto, secondo la buona tradizione Vichinga ) i suoi genitori lo mandarono in Norvegia per studiare ed apprendere l’arte del commercio marittimo .

Leif era in gamba, aveva voglia di affermarsi ed inoltre , dato che non era così rigido e duro come suo padre , voleva anche studiare.

Immancabile ci fu allora l’incontro con la Chiesa di Roma, e Leif si fece battezzare, diventando cristiano.

Eriksson tornò così in Groenlandia con un prete, che aveva lo scopo di cristianizzare gli insediamenti Vichinghi in quel luogo sperduto.

Nonostante la freddezza dimostrata da suo padre, che non ne voleva sapere del cristianesimo , con i suoi preti “ buoni a nulla “ ( si espresse proprio in questi termini ) e perditempo, Leif riuscì, con i favori di sua madre, a far erigere delle chiese sia nell’Insediamento Orientale che in quello “ Occidentale “, che nel frattempo era stato creato.

In questo periodo siamo ormai intorno all’anno 1000, proprio il periodo in cui Leif decise di intraprendere alcuni viaggi di esplorazione a Ovest.

Da tempo si vociferava negli insediamenti che più in là della Groenlandia doveva esserci “ qualche cosa “ .

Un tale, di nome Bjarne Herjolfsson , sviato dalla solita improvvisa tempesta e spinto sempre più a Ovest, aveva avvistato tempo prima una terra, ma non vi era approdato veramente.

Era riuscito comunque a ritornare e a raccontare la sua avventura.

Questo era tutto quello che Leif sapeva , ma per il momento gli bastava.

Con una ciurma di 35 uomini , tra i quali alcuni di coloro che erano stati sull’imbarcazione di Bjarne testimoni dell’avvistamento della terra sconosciuta, partì ( la data esatta non si conosce ) e veleggiò verso Occidente in esplorazione.

Con loro vi era anche uno “ del Sud “ ( secondo i Vichinghi ) , un tedesco di nome Tyrkir e amico di Eriksson.

Dopo quattro giorni di navigazione durissima, pericolosa e contrastata aspramente dai marosi, Leif si imbattè dapprima in un ampio costone pietroso , una zona assolutamente inospitale che venne chiamata “ Helluland “ ( la Terra delle Pietre ) . Sarebbe l’odierna Terra di Baffin .

Continuando a veleggiare in direzione Sud questa volta, scoprì una ampia costa lussureggiante e ricca di boschi . Questa zona certamente più invitante venne poi chiamata “ Markland “ ( la Terra dei Boschi ): corrisponde all’attuale Labrador.

Ma Leif voleva andare ancora più a Sud , e aveva ragione. Proseguendo nella navigazione costiera Leif Eriksson raggiunse una terza terra che gli sembro così ricca e promettente che decise di sbarcare e tutti insieme vi si stabilirono, costruendo dapprima dei ripari di fortuna e poi delle capanne vere e proprie in un accampamento che venne chiamato Leifsbudir ( Le Capanne di Leif ).

Nel frattempo si decise insieme di esplorare l’interno e altre parti della costa.

Da queste prime ricerche all’interno scaturì l’episodio che pare abbia avuto a che fare con il nome che fu scelto in seguito per battezzare questo terzo territorio , Vinland , appunto ( con la massima probabilità la parte settentrionale di Terranova, chiamata così da Giovanni Caboto nel 1497 ).

Ma potrebbe essere solo una leggenda.

Il tedesco Tyrkir , uno strampalato mattacchione, si era perso nei boschi e non lo si trovava più . Ma Leif voleva trovarlo : non voleva assolutamente perdere i suoi uomini in un modo così stupido, e poi aveva bisogno sempre di braccia da impiegare nel lavoro, perchè erano in pochi.

Dopo un po’ Tyrkir fu ritrovato, ma si comportava stranamente, diceva cose senza senso e non si reggeva in piedi. Sembrava ubriaco . Quando si riprese sostenne di avere trovato nel bosco delle viti e delle bacche con le quali aveva tratto un succo che, una volta bevuto, lo aveva inebriato.

Ecco che da questo aneddoto la leggenda vuole che sia nato il nome di Vinland , la Terra del Vino.

In realtà in quelle zone di Terranova la vite non avrebbe mai potuto attecchire e pertanto gli esperti si sono limitati ad osservare che, per i primi esploratori Vichinghi , quella terra sembrava così fertile che addirittura, a loro parere, si sarebbero potute coltivare delle viti e quindi il termine Vinland dovrebbe essere meglio tradotto con il significato di “ Terra molto fertile “ o “ Terra fertile da vino “.

In ogni caso Leif e la sua piccola spedizione svernarono nel Vinland in un clima tutto sommato accettabile e l’estate successiva ritornarono in Groenlandia a raccontare la loro impresa , tutti pieni di apprezzamento per quelle terre, per l’assenza di gelo, per l’erba , i boschi e i frutti, per il legname ed i salmoni.

Leif Eriksson avrebbe voluto ritornare al più presto nel Vinland ma, purtroppo, nel frattempo suo padre il Rosso era morto e, come figlio maggiore, doveva subentrare necessariamente nella direzione del clan famigliare, come da buona tradizione nordica.

Fu deciso che si sarebbe sobbarcato l’onere dell’impresa suo fratello Thornvald, che comunque era un uomo di valore.

Seguendo le indicazione di suo fratello, Thornvald riuscì a raggiungere l’accampamento nel Vinland che Leif aveva costruito nella prima spedizione e, senza indugio, condusse una spedizione esplorativa lungo la costa occidentale di Terranova .

Raggiunse l’imbocco di un grande estuario e vi si diresse all’interno, in direzione Ovest.

Poco dopo avvenne il primo incontro con i fieri indigeni nordamericani. Purtroppo le cose non andarono molto bene, dopo i primi tentativi di approccio . Gli indiani d’America non erano docili come gli Eschimesi e, in breve tempo, visto che i Vichinghi non erano certo tipi che ci pensavano due volte a tirar fuori asce e spadoni , il tutto finì in una violenta zuffa.

L’unico caduto da parte vichinga fu proprio Thornvald, colpito da una freccia indiana.

Senza altre perdite l’equipaggio tornò alle capanne di Leif dove vi trascorse l’inverno senza altri incidenti e la primavera successiva rifece vela per Eiriksfjord in Groenlandia , dove raccontarono a Leif tutto quanto era loro accaduto.

La brutta avventura con gli indigeni americani ( soprannominati Skraelingar dai vichinghi, termine dispregiativo che significa “ bruttoni urlanti “ ) aveva lasciato il segno, e Leif, con suo fratello morto, non se la sentì di dare il via ad un vero e proprio tentativo di colonizzazione del Vinland in prima persona .

Chi allora tentò veramente di colonizzare quella parte dell’attuale Nordamerica fu un Normanno islandese di nome Thorfinn Karlsefni, un commerciante vichingo che aveva sposato tale Gudrid, una figliastra di Erik il Rosso.

Circa 160 uomini e donne tentarono l’avventura portandosi dietro nella traversata anche parecchi animali e riuscirono tutti a raggiungere il Vinland. Ma la vita per loro non fu per niente facile.

Da un’analisi comparata che i vari esperti e studiosi hanno tratto dalle descrizioni delle due Saghe nordiche , possiamo dire con certezza che il tentativo di colonizzazione del Vinland durò tre anni, tre anni molto difficili.

Non si riuscì a stabilire una vera pace tra i nativi americani ed i vichinghi anzi, nell’ultimo periodo di permanenza scoppiò una vera e propria guerra tra gli “ Skraelingar “ e i Nordici.

Le linee di collegamento con la Groenlandia erano poi molto esili e molto lunghe, vi erano molti malumori e liti tra le stesse famiglie dell’insediamento ed infine il potenziale umano era veramente insufficiente per resistere sia alle pressioni degli indiani ostili che per rendere vivibile quel territorio.

Karlsefni, sia pure a malincuore decise alla fine di andarsene .

Essendo un uomo di buon senso l’islandese si era veramente reso conto che non poteva continuare a far vivere il suo gruppo nella paura di essere totalmente annientato dagli indigeni in combattimento.

Questo tentativo di colonizzazione del Nord America si risolse pertanto in un sanguinoso e drammatico esperimento che in sostanza non ebbe seguito .

Diversi ricercatori sono concordi nel sostenere che tutti questi viaggi cessarono completamente al più tardi nel 1020 d. C. Altri archeologi sostengono che sporadici ulteriori approdi per meri motivi di caccia e pesca continuarono fino al XIII secolo ma possiamo sostenere che, in realtà, veri e propri tentativi di colonizzazione non si verificarono più e anzi, in seguito, nel corso del medioevo in Europa si perse completamente il ricordo di questi approdi avventurosi e delle tracce dei Vichinghi in Nordamerica.

Questi coraggiosi navigatori nordici potrebbero essere stati veramente i primi nell’era cristiana a raggiungere il Nuovo Mondo anche se, a dire la verità, negli ultimi tempi si sostiene da più parti, e con insistenza, che in quello stesso periodo, o poco dopo, dall’altra parte del continente Nordamericano, sulle coste del Pacifico, potrebbero essere approdati degli esploratori cinesi del Celeste Impero .

Ma ovviamente tutto questo, come si è soliti dire, è un’altra storia.

Bibliografia Essenziale

C.W. Ceram, Il Primo Americano, Einaudi , Torino, 1972.

Roberto Bosi, I Miti dei Vichinghi, Convivio / Nardini , Firenze , 1993.

Gwin Jones, I Vichinghi, Newton Compton, Roma, 1995.